I miei racconti:
"L'IMMAGINE PARLA AL PRESENTE"
L’immagine parla al presente.
Arriva la sera senza rumore si alza la luna, una brezza la culla.
Sono qui nella veste notturna con la fame di te. Malata della mia solitudine i tuoi passi sento entrare nell’anima. Il cuore trema, i pensieri là ai confini dove tutto sembra finire e il silenzio non lascia dormire. Sulla pelle il caldo brucia i ricordi. Un violino confonde gli accordi. Le parole divengono scie luminose ma nel buio non hanno voce…Ci sono giorni durante i quali desideri farti del male e a mente lucida scegli di proseguire a destra per entrare nella prima stanza a sinistra. Sei consapevole che ne uscirai distrutta. Prima di entrare, ti chiedi anche se riuscirai ad andartene sulle tue gambe, il cuore tira brutti scherzi alla tua età. La calura di luglio si fa sentire; siamo stretti nell’abbraccio dell’anticiclone africano che ci alita addosso il suo lungo fiato caldo. Mi sento sola più che mai. Il desiderio di aprire i cassetti del tuo mobile mi spinge a farlo. Quante foto di noi riuscirò a guardare senza piangere, senza conficcarmi le unghie fino a farmi sanguinare. Tu eri il mio fotografo, il nostro fotografo, non ne ho mai conosciuto uno migliore di te anche se non lo facevi di professione. Sapevi guardare nell’obiettivo con l’occhio collegato al cuore. Sono consapevole che ogni fotografia parlerà al presente, mi guardo intorno, ti cerco, non ci sei. Nella mente incomincerà il lavorio per mettere a fuoco ogni particolare dei momenti che hai immortalato. L’afa nella stanza è quasi asfissiante, apro le imposte, accendo il ventilatore, il suo ronzio regolare mi fa tornare in mente tu mamma che nelle giornate soffocanti quanto queste, nel pomeriggio spostavi tavolo e sedie sul lato est della casa, preparavi una caraffa di limonata fresca, appoggiavi sul piano alcune riviste e qualche fotoromanzo poi arrivava la zia con l’Unità e il Resto del Carlino, i due quotidiani che aveva in parte già letto e in seguito ci avrebbe fatto conoscere gli articoli a suo avviso più importanti; in ultimo giungevano le nostre inquiline che si ritagliavano qualche oretta prima di tornare in casa a preparare la cena. Quanto ho amato quei pomeriggi di quiete ma pulsanti di vita e di speranze. Ricordo bene che ho incominciato a leggere da autodidatta sfogliando le due riviste in voga a quell’epoca e che non mancavano: Grand’Hotel e Sogno. Ero stanca di soffermarmi a guardare le immagini, desideravo capire cosa ci fosse scritto. Durante l’inverno avevo seguito le lezioni private di una maestra che abitava in una delle nostre case. Tu mamma l’avevi incaricata di aiutare i miei fratelli maggiori a eseguire i compiti; in quelle ore mi intrufolavo anch’io; chiedevo che mi insegnasse a scrivere. Ogni volta sentivo rispondere che ero troppo piccola ma la mia insistenza non risultò vana. La maestra chiese il permesso a te che lo accordasti. Il giorno seguente con un quaderno sottobraccio e l’astuccio che conteneva una matita, un temperino, una gomma, seguii i miei fratelli, orgogliosa e felice. In breve riempii metà quaderno di aste. Data la precisione con cui le eseguivo, mi propose di scrivere la prima lettera dell’alfabeto e di seguito tutte le altre poi passò a farmi unire le sillabe e farmi imparare i suoni. Durante l’estate del 1956, forte delle lezioni ricevute, incominciai a leggere i fotoromanzi di Sogno ma non quelli di Grand Hotel dei quali non mi piacevano le immagini, apparivano troppo scure, con tanto inchiostro nero e probabilmente disegnate a mano, a differenza di quelle di Sogno che erano fotografie. Per leggere un fotoromanzo impiegai un’intera settimana. Ero entusiasta della mia conquista ma non ne feci parola con nessuno, certa che se tu ne fossi venuta a conoscenza, non mi avresti permesso di prenderle in mano. Rimase un segreto tra me e me. A scoprirlo fu il tuo fratello più giovane nell’estate del 1958 quando tu mamma lo incaricasti di insegnarmi a leggere e scrivere dato che il primo ottobre mi accingevo a frequentare la prima elementare. Eri convinta che io sapessi solo disegnare le ventuno lettere dell’alfabeto. Lo zio molto curioso mi chiese come avessi imparato a leggere con tanta padronanza; dapprima rimasi in silenzio, in seguito alla sua insistenza, chiesi se sapesse tenere un segreto. Promise ed io dichiarai come avevo fatto e con quale giornale mi continuavo ad esercitare.
<<Mi raccomando, la mamma non deve sapere>>.
<<Non preoccuparti>>rispose ma non mantenne del tutto la promessa istigato dall’altro zio che aveva da poco terminato il liceo ed era entrato in seminario. Fu il nonno a rimproverare mia madre durante uno di quei pomeriggi estivi in cui ci si ritrovava fra donne a leggere e chiacchierare. In genere non venivamo mai disturbate dagli uomini che erano tutti quanti al lavoro. Appena giunse, cadde il silenzio. Tu, dopo il saluto, chiedesti di cosa avesse bisogno.
<<Dov’è tuo marito, avrei da proporgli un affare>>.
<<È al lavoro, non ritorna prima delle otto; devo anticipare qualcosa?>>
<<No, parlerò con lui sabato nel pomeriggio>>.
Prima di andarsene, sfogliò le riviste, ti fissò negli occhi e sentenziò:<<Ti sembra opportuno tenere a portata di mano dei bambini giornali del genere?>>
<<Padre guardate voi stesso, non c’è niente di indecente; si tratta di fotoromanzi casti, hanno solo la capacità di far sognare chi legge>>.
<<Sei madre di tre figli, sarebbe bene che non lo dimenticassi; tieni a mente che sono messe all’indice dalla Chiesa letture del genere>>.
<<Ah se è per la Chiesa, sappiate che non condivido quell’opinione. Porto ad esempio le visite che Don Valentino fa a mia suocera per leggerle brani del Vangelo e dell’Antico Testamento. La sua è un’opera pia e lodevole data l’infermità di lei ma perde parte del suo valore quando si scaglia contro i miei figli e i miei nipoti perché leggono alcuni giornaletti che io stessa acquisto. Si tratta di Tex Viller, di Zagor e dell’Intrepido. Appena scorge nelle mani di qualcuno quest’ultimo, se ne appropria e lo strappa. I bambini lo temono e calca la mano dicendo che bruceranno nelle fiamme dell’inferno con quelle letture>>.
<<Approvo Don Valentino, i tuoi due maschi hanno bisogno di una guida, tu e tuo marito non gliela state fornendo, concedete loro troppo libertà>>.
Terminato il sermone, se ne andò senza bere il bicchiere di limonata che tu gli offristi. In cuor mio sentii un peso greve; il disprezzo manifestato dal nonno nei confronti di voi genitori, era stato causato dalla confessione del mio segreto allo zio. La tradizione dei pomeriggi estivi continuò anche negli anni seguenti. Ricordo bene l’estate del 1962, quando non accompagnavi noi bambini al mare, ci rilassavamo sedute all’ombra dei salici e del noce nella parte est del giardino. Continuavamo a leggere e a sfogliare riviste e giornali. Dopo l’arrivo della notizia che Marlyn Monroe si era suicidata, non andammo più al mare, trascorremmo il tempo a leggere e rileggere gli articoli che parlavano dell’attrice, della sua vita e della sua tragica fine. Tu e la zia che pur non amando le attrici del cinema, eravate rimaste prima attonite e poi costernate; non riuscivate a capacitarvi e desideravate conoscere la ragione di quel folle gesto. Avanzavate le ipotesi più strane. Io, in uno di quei pomeriggi in cui si parlava solo di lei, espressi davanti a tutte il desiderio di studiare arte drammatica per divenire attrice. Tu madre mi fissasti a lungo poi dichiarasti:<<È impossibile, accantona subito l’idea, ti dovresti trasferire a Roma, tuo padre non lo permetterà mai. Non ha accettato neppure la mia proposta di farti prendere lezioni di pianoforte dal maestro che abita a pochi chilometri da qui>>.
Fu da quel momento che si scolpì nella mia mente la disparità di trattamento fra maschi e femmine e me ne rammaricai. In seguito non ho combattuto a sufficienza per far valere i miei progetti che venivano puntualmente bocciati da mio padre. Mi limitavo ad esprimerli, magari piangevo anche se sapevo che il pianto non avrebbe contribuito a realizzare i desideri. Non fui libera di scegliere la scuola superiore che volevo frequentare, ricordo perfettamente le sue parole.
<<Il liceo a cui ti vuoi iscrivere è presente nella scuola parificata che stai frequentando?>>
<<No, in quella scuola mi posso iscrivere solo all’Istituto Magistrale o alla Scuola Magistrale per insegnare all’asilo>>.
<<Diverrai maestra di scuola elementare, non ti basta?>>
<<No babbo non mi piace; la mia insegnante, Suor Anna Maria, mi ha consigliato il liceo dicendo che posseggo le qualità di scrittrice o di giornalista>>.
<<Anche le suore ci si mettono ad istigare le giovani! A me non importa delle tue propensioni, sei una donna, o accetti di divenire maestra oppure rimarrai a casa ad aiutare tua madre nei lavori domestici>>.
Io che avevo amato la scuola in maniera viscerale da subito, incominciai a provare avversione e il primo anno scolastico si rivelò un vero disastro. Ero infelice, studiavo il minimo indispensabile per arrivare alla sufficienza. Cominciai a dedicare tempo al mio aspetto fisico. Non passavo inosservata. Curavo l’abbigliamento che mia madre mi forniva. Trascorrevo ore di prova dalla sarta. Ben agghindata, attiravo l’attenzione dei ragazzi, mi piaceva ricevere i complimenti e null’altro. Appena qualcuno si avvicinava per parlare, mi allontanavo. Una sera di giugno del 1967 in cui ero provata e triste, mi accompagnaste nella balera poco distante da casa e che ogni tanto frequentavo. Dovevo tirarmi su il morale e trasformarla in una serata piacevole. Il locale possedeva un grande giardino; era lì che si ballava e si ascoltavano gli ultimi successi con musica dal vivo; regnava un gran trambusto causato da alcuni ragazzi che erano venuti alle mani. Mentre sorseggiavo il mio drink ghiacciato e guardavo in giro per vedere se la rissa fosse rientrata, mi accorsi che inginocchiato ai miei piedi c’eri tu. Ponevi domande, non potevo rispondere, i tuoi occhi verdi mi avevano ammaliato. Continuasti a chiedere finchè compresi che stavi proponendo di ballare insieme appena il complesso avesse ripreso a suonare. Il mio sì non fu immediato ma alla fine arrivò. Ti alzasti e ti allontanasti per raggiungere l’angolo bar; avevi sete. Da quella sera non ci siamo più lasciati; hai fatto di tutto per stare con me e hai convinto i miei genitori a dare il permesso di frequentarci. Il tuo ingresso mi ha riconciliato con la vita; stavo attraversavo un periodo di amarezza e di disillusione. I battiti scomposti del cuore ogni volta che ti avvicinavi, le sensazioni che provocavano la tua persona, mi facevano sentire viva e con uno scopo. Ho incominciato ad apprezzare un po’ di più la scuola che frequentavo. Oggi sono qui in questa stanza a distanza di cinquantasette anni e mi accingo ad aprire i tuoi cassetti. Non lo faccio spesso perché i ricordi soverchianti mi spingono all’angolo, mordono le carni, riducono a brandelli il cuore e ogni volta temo di non uscirne viva. La mano meccanicamente apre il primo a destra. Nella sua custodia marrone ancora lucida nonostante gli anni trascorsi, appare la macchina fotografica. L’avevi acquistata a Roma mentre prestavi il servizio militare. Ti piaceva tanto fotografare ed eri bravo. Apro l’anta a ribalta dove sono custoditi gli album. Sono tanti, uno per ogni vacanza. Mi voglio fare del male, incomincio a sfogliarne uno. È il primo, ci frequentavamo da poco. I soggetti sono io e la natura. Tu eri un amante della natura. In poche appari, adducendo la scusa di non essere fotogenico. Quando mi accontentavi, inserivi l’autoscatto poi correvi verso di me, mi stringevi e sorridevamo insieme. Le immagini scorrono tra le mie dita come i ricordi di quelle domeniche trascorse al lago o alle cascate nella natura impervia. Avevo paura di inoltrarmi in mezzo ai boschi, a salire sulle rocce; amavo e apprezzavo la bellezza della natura ma allo stesso tempo la temevo. Sei stato tu a rassicurarmi e a farmi vincere ogni timore. Scorrono le immagini delle innumerevoli estati passate prima al mare poi ai monti mentre la nostra famiglia cresceva di numero. Ecco le cime delle Dolomiti, le montagne che amavi di più. Apprezzavi la loro luminosità notturna. Abbiamo trascorso tante sere sdraiati sui prati a osservarle insieme alle stelle che sembrava si abbassassero per lasciarsi toccare. Stringo nella mano le foto mentre scalavi una vetta. Dovevo essere io a scattarle ma la paura che provavo nel vederti appeso in cordata, mi facevano tremare la mano e battere i denti. Altre immagini mi mostrano ai piedi della cima stretta ai nostri figli mentre tu dall’alto con una mano ci salutavi. Lacrime copiose si riversano e bagnano i ricordi del passato. Desideravamo condividerli seduti sul tappeto di fronte alla fiamma del camino. Le mille foto sono figlie di quell’obiettivo che ricorda il tuo occhio. Percepisco ancora il clic, sorrido. Mi esprimo a voce alta con le immagini che parlano di te, al presente come mi potessi ascoltare. Sono peccatrice che grida amore, ebbra di te. Chiaro e ardente il desiderio che chiede strada nel sogno in questa danza senza fine. Il nostro sogno si è spento occhio di navigante, guardiano del mare. La casa senza di te non si può misurare, sono i silenzi a renderla immensa mentre un altro giorno muore in questa terra d’uragani, alcova di notti senza luna, di stelle gelide e lontane. Mi arrendo a questo vento che scava nei ricordi e nel fiume dei pensieri che ha rotto gli argini. Le mani affondate nel presente per liberare le incertezze sempre rimandate per paura di perderti. La traiettoria dell’universo mi ha condotto qui dove l’approdo è negato. Immaginami, se puoi, come un albero senza radici, con la chioma strappata. Vorrei dirti solo che cerco te, il colore del tuo cuore, il profumo dei tuoi pensieri. Odo il frastuono della tua assenza e di quest’anima invisibile come un peso che mi tira giù. Sono sola con l’ansito del mare a tenere a bada i ricordi, sospesa tra inferno e paradiso. Vorrei dare un senso al presente e di nuovo mi chiedo cosa ho fatto dei miei anni e dove ho sepolto il tempo migliore. Non è facile procedere per dare un senso che da tempo non trovo o alzarsi dal letto, guardarmi allo specchio per vedere il bello che non cerco più. La mia calma è solo apparenza. Provo a ricordare il nomignolo che usavi, non lo rammento. Se fossi qui, ti direi di chiamarmi come vuoi tu. Mi pungo il cuore, mi offro un indizio per trovare sotto alla pelle un brivido caldo. Esistenza di cera la mia che si dilata e si eclissa. Non credo più a nulla. La scatola dei ricordi con vecchi ritratti in una casa deserta dalle pareti che trasudano malinconia da tempo sospesa sui cristalli dei lampadari da dove i ragni muovono le loro scorribande, mi costringono a prendere una decisione. Non sopporto più questo assedio, me ne andrò lontano dopo questo temporale che sembra non finire per sapere se sono viva. Ho rotto ogni indugio, a dissetarmi sarà il succo viola del glicine. Parole vergate su fogli e immagini che porto con me, a renderle preziose sarà il profumo del tempo.
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